
Intervista alla scrittrice Cristina Caloni, autrice del romanzo “La mia stagione è il buio”
Per la rubrica “interviste” protagonista di oggi sarà Cristina Caloni, la scrittrice del romanzo “La mia stagione è il buio” del quale trovate la mia recensione al link che segue: https://www.nerdsbay.it/la-mia-stagione-e-il-buio-cristina-caloni/
Come ho già scritto nella recensione, il suo libro non è stato “facile”, il protagonista mi ha destabilizzata molto; del resto però, l’obbiettivo di Cristina era proprio questo ed è stata grande nel suo intento. Tengo tantissimo a ringraziarla per il tempo che ha deciso di dedicarmi rispondendo alle mie domande, ma soprattutto per avermi dato la possibilità di conoscere il background che si nasconde dietro il personaggio di Julian. Significa tanto per me. Detto ciò, buona lettura!

- Quando l’idea di scrivere il romanzo “La mia stagione è il buio” si è trasformata in realtà?
Ho iniziato a scrivere questo romanzo tre anni dopo la morte di Jacopo O.Z. a cui è ispirato e dedicato, probabilmente per esorcizzare il suo ricordo e per mettere a tacere i troppi pettegolezzi sul suo conto.
- Come mai hai scelto proprio questo titolo?
Ho preso in prestito un verso di Cesare Pavese, da “La terra e la morte”: “Sei la terra e la morte. / la tua stagione è il buio / e il silenzio. Non vive / cosa che più di te / sia remota dall’alba”. Versi che sono tornati a tormentarmi anche nel mio terzo romanzo ispirato a un cold case intimamente legato alla raccolta di Pavese. Pavese resta ancora, più che mai, un intellettuale di riferimento, un uomo dotato di una sensibilità estrema che l’ha portato a togliersi la vita con una massiccia dose di sonniferi, lasciando il famoso appunto “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Anche Jacopo O.Z. si è tolto la vita, per quanto sono convinta che sia stato un incidente dovuto alla sua malattia.
- Sappiamo che il protagonista del libro, Julian, è ispirato a una persona realmente esistita. Ti va di parlarci un po’ di lui?
Julian è ispirato appunto a Jacopo O.Z., un musicista talentuoso e affascinante che ho avuto la fortuna di conoscere. “Love is the end” è l’unico disco del suo gruppo, i Mercury drops. Quando lo frequentavo ignoravo che soffrisse di schizofrenia, l’ho scoperto dopo la pubblicazione, parlando con i suoi amici più cari. Probabilmente non c’era una reale volontà di uccidersi, sono state le allucinazioni a prendere il sopravvento, forse si è gettato dalla finestra credendo di poter volare. Purtroppo, per quanto ne so, non era in cura presso nessuno psichiatra. Lasciare il peso delle malattie mentali sulle spalle delle famiglie comporta un grande rischio: questa è una delle conseguenze dell’aver tolto i fondi a una legge meravigliosa come la legge Basaglia.
- Cosa ha significato per te la pubblicazione del tuo romanzo?
La pubblicazione mi è sembrata una conseguenza naturale della scrittura che, senza lettori, resta muta e insensata. Eppure, ogni nuovo lettore mi sembra un miracolo. Ho deciso di intraprendere la strada della scrittura quando avevo sette anni, ma ne ho impiegati altri trenta per decidermi a prenderla sul serio. Sono sempre stata troppo insicura e perfezionista per proporre qualcosa. In questi trent’anni, oltre a laurearmi e a lavorare, ho “imbrattato” parecchi fogli e cestinato moltissimi tentativi. In realtà “La mia stagione è il buio” sarebbe il secondo romanzo che ho scritto: il primo verrà pubblicato l’anno prossimo, sempre per Golem.
- All’interno del libro “La mia stagione è il buio” c’è un personaggio che ti somiglia?
Credo sia una domanda che gli autori si sentono rivolgere molto spesso, soprattutto in un momento come quello odierno che vede un ritorno all’intimismo, all’autobiografia e all’auto-fiction. C’è sempre, in ogni romanzo, qualcosa dell’autore, già solo perché si tratta della sua prospettiva sul mondo, però penso si debbano decisamente separare opera e autore. No, nessuno dei personaggi dei miei romanzi mi somiglia, per fortuna: sono gli altri a interessarmi, le loro storie che vanno perse, ciò che metto al primo posto è l’osservazione e l’ascolto.
- Quanto c’è di te in questa storia?
Come dicevo, non c’è nulla di autobiografico, però emerge – almeno spero – la mia formazione filosofica legata alla cosiddetta Scuola di Milano, quindi alla controcultura, al post-strutturalismo, alla fenomenologia e all’antipsichiatria. Mi riferisco ad autori come Deleuze, Guattari, Foucault, Sacks, Basaglia, ma anche a professori come Parinetto. Non voglio certo sminuire le patologie e la sofferenza, ma credo che il disagio e la malattia mentale sappiano espandere la nostra visione del mondo.

- È stato difficile “lasciar andare” questo pezzo di te?
No, non è stato difficile, è stato liberatorio. Non vedevo l’ora che prendesse il largo e viaggiasse. Ed è arrivato molto lontano, almeno nella sua versione “audiolibro”, forse per la sua immediatezza e gratuità. Spero che la bellissima edizione cartacea di Golem possa avere la stessa fortuna.
- Abbiamo già detto che il romanzo parla di un ragazzo realmente esistito, ma quanto c’è di vero e quanto di inventato?
Julian Tartari non è Jacopo O.Z.. Per rispetto al dolore della famiglia e degli amici ho inventato quasi tutto, cercando però di ricalcare il modo di parlare di Jacopo, di far rivivere il suo immaginario e le sue ossessioni. Era davvero ossessionato da David Bowie. Stava davvero imparando a volare. E il suo migliore amico è sul serio un attore che, spesso, ha letto brani del libro alle presentazioni.
- Quali emozioni vorresti che il tuo libro suscitasse nel lettore?
So quale reazione vorrei che non suscitasse: l’indifferenza. Se non sono una scrittrice concentrata sull’impegno politico e civile perché temo lo scrivere didascalico, di certo parto da una critica alla società attuale e al suo capitalismo sfrenato che reifica qualsiasi cosa, generando appunto inadeguatezza e problemi psicologici. Non cerco di suscitare empatia, ma di disturbare, in questo senso prediligo i personaggi “antipatici”, scelta che ammiro in autori acclamati come Houellebecq.
- Ti piacerebbe scrivere un altro libro?
Eh sì, anzi, mi piacerebbe poter vivere di sola scrittura. Scrivere è la mia unica occupazione, quindi non ho mai smesso di farlo. Ho già due romanzi pronti, un terzo su cui sto lavorando e tante idee da concretizzare.
- Ti piace leggere? Hai un libro o un autore del cuore? Se è sì, quale e perché?
Certo, in questo credo di essere vorace come te, vero? Ho ascoltato il suggerimento di Stephen King di usare ogni briciolo di tempo per leggere, in coda al supermercato, sui mezzi, nelle sale d’attesa. Leggo parecchio, anche se non abbastanza a causa di una malattia alla vista. Mi aiutano molto gli audiolibri. Non ho un autore del cuore, ma ho dei modelli inarrivabili a cui tendere. Ultimamente sto apprezzando Thomas Bernhard per la potenza strutturale delle sue opere che sembrano partiture, Tom Robbins per la fantasia febbrile, le “maestre” del brivido Shirley Jackson e Patricia Highsmith per la novità che costituivano. Amo la letteratura anglosassone, ma non trascuro quella italiana, imprescindibile per scrivere bene in questa lingua, quindi spazio dai contemporanei viventi agli autori del passato. I miei preferiti? Malaparte e Ortese. Per quanto riguarda “La mia stagione è il buio”, avevo ben presente Patrick MacGrath che ho incontrato grazie a Luca Crovi. Conservo gelosamente la mia copia autografata di “Follia” nell’edizione Adelphi del 1997.
Vorrei aggiungere un ringraziamento speciale all’intervistatrice perché questa è la mia prima volta, spero di non essere stata troppo pedante, mi ha molto emozionata l’attenzione da parte di una lettrice così giovane e appassionata: sono proprio i ventenni i lettori a cui aspiro, quelli che vivono le storie sulla loro pelle, quelli che si merita Julian.
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